Italien
Balzan Preis 2016 für Vergleichende Literaturwissenschaft
Synthese der Forschung: Rom, 18.11.2016 – Forum (video)
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Il Professor Peter Kuon ha già illustrato, con generosità che non posso non considerare eccessiva, ma con la perspicacia e la comprensione che gli sono proprie, e che qui si fondano sulla lettura ampia e approfondita del mio lavoro, le ricerche e le pubblicazioni che ho compiuto negli ultimi trenta o quaranta anni. Sarebbe perciò superfluo un mio intervento in merito, e potrei concentrarmi sull’avvenire, ma il comandamento che ho ricevuto dalla Fondazione Balzan è stato chiaro: per questo Forum, viene richiesta una «sintesi panoramica sull’attività svolta e da svolgersi in futuro».
Ora, per quanto riguarda il passato, io ho già commesso tale peccato di narcisismo ben tre volte, quando ho scritto Sulle orme di Ulisse, uscito dal Mulino in prima edizione nel 1998 e in seconda, triplicato di dimensioni, nel 2007, e quando, nell’autunno del 2005, tenni alla Columbia University di New York una lezione intitolata Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco: a Critic’s Life with Dante. C’era un po’ di tutto, lì, da mio Nonno che mi leggeva l’Inferno quando avevo cinque anni, alla prima Lectura Dantis tenuta a Cambridge nel 1974, e via di seguito. Forse l’aggiornerò per una conferenza che devo tenere alla Newberry Library di Chicago il prossimo aprile. Potrei cogliere due piccioni con una fava e farlo anche qui, guadagnandomi un qualche tempo e un qualche riposo. Ma non funzionerebbe oggi. Perché Dante è stato certo importante, forse determinante, nella mia vita di studioso e di uomo, ma non è stato tutto.
Se l’esistenza di un critico e di un essere umano fossero programmabili, il mio sentiero sarebbe stato chiaro dall’età di diciotto anni, quando decisi, con infinita presunzione, che avrei scritto un libro ciascuno su Omero, Dante e Shakespeare. Ho poi in effetti scritto questi libri, mi accorgo, ma non come pensavo allora. In realtà, la via di un critico procede per incontri fortuiti e per innamoramenti fulminei, cioè in sostanza per caso. Come spiegare altrimenti una giovinezza spesa a occuparsi della letteratura afro-americana, che poi si volge subitaneamente al Medioevo e vi trapassa in maturità dedicandosi a quello inglese ed europeo, a Chaucer, a Boccaccio, a Dante, al Tragico e al Sublime nella letteratura medievale, all’immaginario della Fama (primo tentativo di travalicare le epoche e i confini nazionali), e poi, nel mezzo del cammin, si volge a Ulisse, ai Riconoscimenti, alle Ri-Scritture bibliche? Il tutto con pause, flashbacks, anticipazioni, ritardi, come nell’Odissea. Mentre scrivevo di Ulisse nella maniera figurale di Auerbach pensando ai Riconoscimenti (quello, Ulisse, veniva da questi, i Riconoscimenti), saltava fuori la Bibbia (anche questa da quelli, e il figuralismo era nato proprio lì, nella lettura neotestamentaria della Bibbia ebraica). E mentre sorpassavo di slancio il Medioevo, entrando – come direbbe Dante – dall’età di mezzo nella prima «senettute», componevo, nella maniera di Curtius, Letteratura europea e Medioevo volgare, un volume che avevo sognato sin dai tempi di Cambridge trent’anni prima e che allora mi ero segnato su una «index card» di quelle che usavano prima dei computer.
Il critico è più mobile della donna, però: davvero qual piuma al vento (quel celebre topos del Rigoletto di Verdi e Piave è in verità già del Filostrato del Boccaccio). I Riconoscimenti languivano, disseminati e dispersi in altri libri. Invece, ecco venire in superficie i Voli. Harvard mi aveva invitato a tenere le Lauro De Bosis Lectures, nelle quali ero stato preceduto nientemeno che da Salvemini. Poiché si era nel 2001, e ricorreva il settantesimo anniversario del volo fatale che De Bosis aveva compiuto su Roma per gettarvi quattrocentomila manifestini antifascisti, Harvard chiese che io dedicassi a De Bosis almeno una conferenza, cosa che avrei fatto volentieri visto che De Bosis mi aveva, tra l’altro, preceduto al Liceo «Tasso» di Roma. Ma io arrivavo in America due settimane dopo i voli terrificanti dell’11 settembre, su un aereo che portava un solo altro passeggero. E l’anno prima avevo visto a New York l’Ulisse guerriero e mascherato, in folle volo, di Ugo Attardi minacciare le Torri Gemelle. Così, pensai di unire De Bosis, Ulisse e il Nine/Eleven sotto una sola etichetta, quella dei Voli. Ai quali lavorai forsennatamente per tre anni, sino a raggiungere l’anniversario dei Fratelli Wright nel 2003, congiungendo le De Bosis Lectures di Harvard con le Alexander Lectures di Toronto, dove poi indegnamente occupai per un semestre la Northrop Frye Chair in Comparative Literature.
Voli. Tuttavia, sin dall’epoca del Liceo, nutrivo in mente due inespresse questioni: cosa sono le «parole alate» che Omero ripete si rivolgono l’un l’altro i suoi personaggi, e cosa sono i «voli pindarici». Niente da fare: dovevo ristudiare Omero e soprattutto affrontare Pindaro, che non è esattamente, come si dice in inglese, «an easy nut to crack», una nocciolina facile da spaccare. Tra Harvard e Toronto, mi imbarcai per quei voli, inseguendo Pegaso e Icaro e Ermes, De Bosis e Saint-Exupéry, Auden e Brueghel, le alcioni, e le aquile. Non era, questo, un innamoramento improvviso, eppure in qualche modo prevedibile? Le aquile, appunto. L’aquila è il volatile che Pindaro preferisce, col quale si identifica. Ma aquila è Omero, che «sovra gli altri com’aquila vola», e aquila, il «sacrosanto segno», è l’impero di Roma, e la Giustizia divina: Paradiso VI e XIX-XX. Aquila, infine, è l’evangelista Giovanni. Potevo trascurare questi? No, non potevo. E così – una cosa tira l’altra – scrissi Parole alate.
A questo punto successero tre cose, più o meno allo stesso tempo. Primo: Pietro Citati mi telefonò un giorno per dirmi che a settantacinque anni avrebbe lasciato la direzione della Fondazione Valla e che, come nell’impero adottivo di Traiano e Adriano, voleva che gli succedessi. Gli risposi che non ero un classicista. Replicò: appunto, io non voglio un classicista: i classicisti hanno occhi bendati. Sventurato, risposi. Secondo: Laterza mi chiese di comporre un libretto, La prima lezione di letteratura inglese. Risposi sdegnato che mai e poi mai avrei scritto una cosa su un oggetto così provinciale come la letteratura in una lingua sola, anche se quella lingua era parlata, e la sua letteratura scritta, in un quinto o quarto del pianeta. Tornarono alla carica: perché non La prima lezione di letteratura comparata? Risposi con minor sdegno della volta precedente, ma sempre con un rifiuto. Perché qualificare di «comparata» la letteratura? Ma la letteratura è sempre comparata, dall’epoca in cui greci e romani palleggiavano gli uni quella degli altri, quando paragonavano Omero e Virgilio o Demostene e Cicerone. Macché comparata e comparata! La letteratura è letteratura, una e sola (vedo bene che i Presidenti Decleva e Veca, nonché i membri del Comitato, vogliono togliermi il Premio che mi è stato assegnato proprio per la Letteratura Comparata!). Così, composi La prima lezione sulla letteratura, organizzandola alla maniera delle Lezioni americane di Calvino, ma sostituendo alle categorie formali quelle esistenziali: morire, stupire essere e creare, compatire, rinascere. Perché, se la letteratura non è vita, tanto vale chiudere i libri.
La Letteratura, dicevo in quella Prima lezione: «tutta, e tout court». Tutt’al più, la si può distinguere in «Letteratura europea» e «Weltliteratur», letteratura del mondo intero. A un certo punto, io son passato dalla prima alla seconda. Senza neppure, a tutta prima, accorgermene. Avevo appena terminato Letteratura europea e Medioevo volgare e stavo curando una monumentale Letteratura europea a cento mani per la Utet. Nel primo di questi libri avevo inserito un capitolo sulle «Stelle» come topos che attraversa lo spazio e il tempo. Tenni sulle Stelle le Lezioni Urbinati in memoria di Carlo Bo. E domandai al Mulino se non avrebbero avuto interesse a pubblicare un libretto di centoventi pagine sull’argomento. Anche lui, lo sventurato Editor, rispose.
Appena, come Molly Bloom, pronunciò le fatali parole «Yes I will yes», io mi misi a scrivere tutt’altro, un libretto sui drammi romanzeschi di Shakespeare, Il Vangelo secondo Shakespeare, che mi consentì poi di andare a insegnare alla Gregoriana, cioè nella tana degli angeli, Scritture e Ri-Scritture. L’Editor pianse amaramente come un’amante tradita, scrivendomi: «Non mi puoi fare questo! Io aspettavo un libro sulle Stelle, tu mi mandi Shakespeare». Ma che ci potevo fare io se l’ispirazione mi aveva condotto dal «Rinascere» della Prima lezione a William Shakespeare? «Thou met’st with things dying, I with things new-born», dice il Pastore nel Racconto d’inverno: tu hai incontrato cose che muoiono, io cose appena nate». Avevo incontrato cose appena nate, anch’io. Ma le Stelle non erano per nulla morte, anzi. Le ripresi in mano dopo Shakespeare. Ero a Lugano. Cominciai a riscrivere i prolegomeni a Dante, guardando all’antichità. Il primo capitolo rischiava di arrivare alla lunghezza prevista per il libro intero, centoventi pagine. Mi accorsi che il passo e la scala erano cambiati, che ci sarebbe voluto tempo e agio per fare il libro che volevo.
Poiché il Dipartimento che avevo diretto per sette anni si univa con un altro e si rendeva quindi necessaria l’elezione di un nuovo direttore, chiesi, e dopo qualche borbottio ottenni, due anni di congedo. Mi rifugiai in clausura nella casa in Sabina e lessi come non facevo dall’adolescenza: quindicimila euro di libri, tanto per monetizzare, in pochi mesi. Poi mi misi a scrivere, dalle 7 di mattina alle 7 di sera. Dalle 9 alle 2 di notte cercavo le immagini e la musica. Fu un’esperienza unica e, credo, irripetibile, una sorta di folle esaltazione. Quando giunsi al termine del Medioevo, per esempio – ormai avevo scritto trecento pagine – pensai di esser arrivato in vista del traguardo, perché la sezione moderna era, credevo, già compiuta. Poi una sera, sotto le Pleiadi, mi dissi: «Sciocco che sei, e come puoi passare dal Medioevo all’età moderna senza entrare nella scienza e nella poesia araba?». La domanda si ripeté a ogni confine che raggiungevo. Persia, India, Cina, Giappone, Australia e Nuova Zelanda, America precolombiana, Africa. Feci il giro del mondo – è una delle cose che mi riprometto di fare fisicamente, sino all’Antartide, con un pezzetto della parte del Premio Balzan che tocca a me come persona – rischiando di rompermi più volte l’osso del collo, perché non conosco quelle lingue e dovetti consultare un numero considerevole di esperti in ciascuna. E atterrai sulle saghe scandinave.
Allora, proseguii spedito: dall’Edda a Ernesto Cardenal il passo è breve, mi dicevo, certo assai più breve di quello che separa le Grotte di Lascaux da Omero, e Omero da Virgilio. E questi da Dante, e Dante da T.S. Eliot. Insomma, procedevo. E alla fine dei due anni, avendo preso l’abbrivio, avevo composto tre libri: Il grande racconto delle stelle, Dante e il suo futuro, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura. Sì, terminai persino, dopo ben sei lustri, anche i Riconoscimenti, quell’Anagnorisis intrapresa trent’anni prima e incagliatasi contro le formidabili rocce delle Recognitions di Terence Cave. Due anni fa, proprio quando Terence venne a Roma per parlare in quest’aula lincea, lo portai fuori a cena e brindammo alla nascita del suo gemello non più riluttante.
***
Ho obbedito dunque alla prima metà del comandamento Balzan, quella riguardante l’attività svolta. Mi scuso se sono stato talvolta troppo intenso e rapsodico: forse, più banalmente, involuto, come diceva il mio professore di Italiano al Ginnasio. Ma era l’unico modo, mi sembra, di imbastire un racconto e mascherare il narcisismo che la Fondazione Balzan ha stimolato. Del resto, sin dall’epoca de L’ombra di Ulisse – remota ormai di ventiquattro anni ma da poco risorta nel Grande racconto di Ulisse – credo che il critico debba essere, come il lettore, Impuro e Inquieto.
Come romano e come lettore, lo sono sempre stato, impuro e inquieto. Il critico impuro è non soltanto chi porta a letto i suoi libri, ma colui che non riesce ad aderire a un solo metodo: che so, il «close reading», la stilistica, lo strutturalismo, la semiotica, persino la filologia. Il critico impuro è mobile, qual piuma al vento: adatta il suo metodo all’oggetto, stabilisce connessioni, trame, ragnatele. Il critico inquieto non si accontenta delle genealogie e dei canoni stabiliti da secoli: va invece per vie traverse, insegue le ombre, e soprattutto non si ferma mai. Io soffro della RLS, la «Restless Legs Syndrome». Mi costringe a muovermi in continuazione, a scrivere stando in piedi, a poco dormire e lungo vegliare. Così, anche, la mia mente e la mia immaginazione. Trascorrono «di terra in terra», come il Vecchio Marinaio di Coleridge.
Soprattutto, sono dominate dalla meraviglia. Non vi sembri inopportuno se mi soffermo un momento sulla meraviglia. Perché è la meraviglia che mi ha fatto scrivere i libri che ho scritto e, spero, me ne farà scrivere altri. Scrive Aristotele nella Metafisica: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e delle stelle, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo». È evidente che per il pensatore antico «philo-sophia» vuol dire ciò che noi oggi intendiamo per speculazione filosofica, ma anche «scienza», filosofia naturale. Tuttavia, Aristotele accomuna in questa meraviglia anche il poeta, poiché subito dopo aggiunge che «anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano la meraviglia».
«Ora come in origine», dice Aristotele: gli uomini primitivi e i bambini, o gli adolescenti. Quelli si interrogavano nei tempi remoti del passato, questi si pongono domande ora. Così nascono la scienza, il pensiero, e il mito. Perché non dovrebbe farlo anche il critico, cioè chi studia i testi dei poeti, dei filosofi, degli scienziati? Il critico deve conservare l’innocenza dei primi pensatori e dei bambini: altrimenti, rischia di divenire l’arido sezionatore di cadaveri, o addirittura di una porzione piccolissima di quei corpi morti.
Dante parlerà di stupore: «ché lo stupore è uno stordimento d’animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle». Si tratta di un brano dalla forza inaudita, di intensissima passione. «Uno stordimento d’animo». Ebbene, io vorrei studiare un po’ questa meraviglia. Ho cominciato già a farlo, in saggi disseminati qua e là, ma mi piacerebbe indagare in maniera più organica questo meccanismo. Cercare le fonti della poesia, della filosofia e della scienza nell’antica Grecia, da dove tutto proviene.
Tuttavia, una ricerca che punti soltanto al principio ispiratore, per quanto centrale, non sarà mai sufficiente per me. A me interessa ciò che desta la meraviglia: il soggetto, per così dire, che diventa oggetto della ricerca. E da anni ho in testa due o tre di questi soggetti-oggetti. Il primo è l’archè, il Principio, la Creazione. Come è venuto alla luce questo universo? Creato da un Dio unico e onnipotente, dal nulla, come vogliono la Bibbia, il Giudaismo, il Cristianesimo, l’Islam? Forgiato da un demiurgo secondo un modello che aveva in mente, da materiali preesistenti, come opinava Platone? Magari, invece, esiste da sempre, come credeva Aristotele. Da dove viene l’idea che, prima che Dio creasse il cosmo, regnava ovunque il caos? Vorrei condurre una ricerca sul Principio, possibilmente con l’aiuto di un giovane. Ricostruire, attraverso l’esame dei testi, dei mosaici, degli affreschi come i Cristiani riescano ad assorbire il modello platonico e quello aristotelico entro il loro, fondamentalmente ebraico, e come il Motore Immobile diventi mobilissimo Vecchio negli affreschi di Michelangelo sulla Volta Sistina. La storia, dopo i grandi poemi del Cinque e del Seicento, giunge sino a Die Schöpfung di Haydn, e ancora alla Création di Milhaud e alle rappresentazioni di Chagall, mentre i postmoderni, Queneau, Calvino ed Ernesto Cardenal impiegano le teorie scientifiche del secondo Novecento, Big Bang ed espansione dell’universo, per parlare del Principio.
Sono convinto, però, che dovremmo anche prestare attenzione a quella che chiamo «poesia della storia», cioè al modo nel quale la storia e la letteratura s’intrecciano, spesso illuminandosi l’un l’altra, talvolta invece adombrandosi. Ora, l’Occidente ha sofferto, al contrario per esempio della Cina, un trauma immenso nella sua storia: ha assistito al crollo, improvviso e catastrofico, di una civiltà che era durata millecinquecento anni. Quando il mondo antico, tra il 450 e il 600 della nostra era, è stato spazzato via come fosse da un maremoto. In un sol colpo, l’Occidente ha perduto l’impero, le strade, i ponti, i bagni, e … i classici. Mi è stato chiesto, di recente, di scrivere un saggio sui Classici per un Companion to World History and World Literature. Ho iniziato a riflettere più attentamente, allora – a stupirmi – dinanzi su che cosa possa aver significato, e significhi tuttora, il collasso della civiltà antica. Sofocle aveva composto un centinaio di tragedie: noi ne abbiamo sette, più molti frammenti. Trent’anni prima che Costantinopoli, l’ultimo baluardo della civiltà greco-romana, cadesse in mano ai Turchi, l’umanista Giovanni Aurispa vi si recò a recuperare i libri degli antichi. Rientrò a Venezia con duecentotrentotto manoscritti,
che comprendevano tutti i più importanti poeti greci giù sino agli Alessandrini, tutti gli storici da Erodoto a Polibio, Diodoro Siculo e Cassio Dione, gli oratori Demostene ed Eschine, tutte le tragedie di Sofocle (sette, appunto) ed Eschilo (sei) che ancora oggi abbiamo, tutto Platone, tutto Plotino, tutto Proclo, le Argonautiche di Apollonio Rodio, Ateneo, la Geografia di Strabone. Insomma, quella che ancora oggi potrebbe venir considerata una non cattiva biblioteca di classici greci.
Ebbene, si dà il caso che da dieci anni io diriga una delle più importanti collane di Classici Greci e Latini al mondo, quella della Fondazione Valla. Da dieci anni mi sforzo di fare qualcosa di non fondamentalmente diverso da quello che fece Aurispa, e del resto la Fondazione prende il nome dall’umanista Lorenzo Valla. Recuperare i testi greci e latini, dal IX secolo a.C. al 1500 (al 1500, perché nel frattempo al Medioevo è successo quel che era accaduto all’antichità, di tramontare e svanire). Pubblicarli con testo critico e apparato, introduzione e commento esteso, come la Valla fa sin dalla sua nascita quarant’anni fa. Per fare questo, occorre però un apparato di ricerca che la Fondazione, da sola, non può mettere in campo. In Francia, la collana delle Belles Lettres ha ricevuto nuovo impulso grazie all’intervento massiccio dello Stato. Negli Stati Uniti, Harvard aveva e tuttora ha la Loeb, che pubblica greci e latini in forma assai utile, ma francamente inferiore alla nostra, senza commento, introduzione, apparato. Da qualche anno, ha iniziato però a pubblicare testi rinascimentali nella «I Tatti Renaissance Library», e quelli medievali nella «Dumbarton Oaks Medieval Library». Harvard è entrata nel mercato con la forza di un’armata di panzer che possiede.
Noi, siamo pochi cavalieri solitari alla ventura. Eppure, nessuno al mondo ha un’Odissea come la nostra, delle Metamorfosi ovidiane come le nostre, un Beda o un Liutprando come i nostri. Certo, abbiamo l’Odissea. Ma non abbiamo l’Iliade. Non abbiamo l’Iliade, ripeto. È un’enormità. Il mio sogno è di costruire un team di ricercatori che possa produrre un’Iliade buona quanto l’Odissea, e gruppi di ricercatori che riescano a condurre studi approfonditi su molti altri testi antichi e medievali e li pubblichino nella nostra Collana. E affrontino, anche, la loro sopravvivenza nell’epoca moderna, il loro Nachleben. L’Iliade, Il Sublime, il Satyricon, lo Specchio dei folli sono importantissimi in sé, ma senza l’Iliade non si dà una tradizione «troiana» che arriva sino almeno alla fine del Medioevo, né potrebbero esser creati Guerra e pace o Addio alle armi. Senza Il Sublime, niente Burke, niente Kant, niente Coleridge. E così via.
Questa sì che sarebbe letteratura comparata! Letteratura che incontra la storia, che la prefigura oltreché venirne influenzata. Faccio un solo esempio. Ho trattato molti anni fa dell’ombra che Ulisse getta sulla letteratura e la storia. Credevo di aver dimostrato per la prima volta che l’Ulisse di Dante ha scoperto l’America. Mi sbagliavo: lo diceva già il navigatore e astronomo spagnolo Pedro Sarmiento de Gamboa poco dopo la metà del Cinquecento. Avevo pensato che Ulisse costituisse un modello per gli scopritori rinascimentali: avevo ragione, ma il poeta, drammaturgo e narratore nigeriano Wole Soyinka mi dimostrò, testi alla mano, che i conquistatori britannici dell’Africa si impersonavano discendenti dell’Ulisse di Tennyson. Avevo esaminato il superomismo ulissico di Nietzsche e D’Annunzio, e sapevo che Ernst Bloch considerava Ulisse un Faust del mare, ma mi ero imbattuto soltanto trasversalmente, quando mi occupavo dei Voli, nella passione superomistica di Benito Mussolini. Dovevo poi leggere uno dei suoi oppositori più grandi, Altiero Spinelli, per constatare che anche lui si considerava un Ulisse. Né potrei mai dimenticare che il mio eroe era entrato nei campi di morte Allora: adesso sarebbe necessario costruire con pazienza una grande antologia di Ulisse da Omero al XXI secolo, con introduzioni e commento, i testi in originale e traduzione, per la Fondazione Valla. E pazienza se per una volta si arriva alla scottante modernità, oltre le Colonne d’Ercole del 1500. Un Ulisse, quello di Ugo Attardi, minacciava le Torri Gemelle di New York: queste, si sono sbriciolate al suolo, quello è ancora lì al suo posto. L’anno in cui quelle cadevano, infilzate da due aerei dirottati da terroristi islamici, era il 2001: lo stesso scelto da Stanley Kubrick e Arthur Clarke per la loro Odissea nello spazio. Quella che inizia e termina con l’Also Sprach Zarathustra di Nietzsche e Strauss.
Non è, tutto questo, qualcosa che ci procura uno «stordimento d’animo», che suscita il nostro stupore? Il critico, lo studioso, può – anzi, io credo, deve – indagare su queste vicende e restituirci quella meraviglia. I classici antichi e la loro sopravvivenza dopo lo tsunami che li ha travolti millecinquecento anni fa. Una ricerca da leccarsi i baffi. Però. Però la meraviglia trova sempre vie nuove per stregarti. Aristotele scrive in una lettera composta da vecchio che quanto più è solo e isolato, tanto più si sente philomythos, amante del mito. Lo si immagina intento a leggere l’Odissea, a seguire la spedizione di Alessandro in India, magari a sognare e abbozzare la composizione di lettere sulle meraviglie dell’Oriente. Io sono ormai in quello stadio della vita in cui si trovava allora Aristotele, e mi sento philomythoteros come lui. Mi domando se non ci sia qualcosa o qualcuno che possa legare almeno quattro delle mie grandi passioni, i classici, Ulisse, le stelle e i viaggi, soprattutto di esplorazione e soprattutto in Patagonia. Ma certo che c’è. Si chiama Pedro Sarmiento de Gamboa. L’ho menzionato poco fa, ricordando che Sarmiento sosteneva, citando Dante, che Ulisse aveva scoperto l’America. È il progetto di ricerca che tengo in pectore.
Sarmiento nacque, forse ad Alcalá de Henares, nel 1530, da famiglia di piccola, forse minuscola nobiltà. Studiò approfonditamente, forse alla Complutense, il trivio e il quadrivio, in particolare greco e latino, matematica e astronomia. Scriveva poesie. È probabile abbia partecipato alle guerre europee tra il 1550 e il 1555. Sappiamo con certezza che nel 1555 si trovava in Messico, e nel 1557 in Perù, dove divenne intrinseco del Viceré Francisco de Toledo. Accusato e processato ben due volte, nel 1564 e nel 1575, dall’Inquisizione di Lima, per stregoneria, scienze esoteriche «giudaiche», possesso di anelli magici e capacità di produrre filtri amorosi, si appellò al Papa e se la cavò, grazie al Viceré, con poco: una fustigazione pubblica, un convento e digiuno per alcuni mesi. Collaborò con Francisco de Toledo alla stesura delle Informaciones, cioè alla ricerca approfondita di informazioni, appunto, sulla storia dei popoli indigeni. Fu così che stese la prima e forse più importante Historia general de los Incas, all’inizio della quale menziona Ulisse come il primo che sia giunto nella Nueva España.
Sarmiento, tuttavia, aveva un solo desiderio: voleva navigare, esplorare, cartografare, osservare le stelle del Sud. Tra il 1567 e il 1569 era cosmografo, forse comandante in seconda nella spedizione di Álvaro Mendaña de Neira alla ricerca della «Terra Australis» nel Pacifico. Arrivarono a quelle che oggi sono chiamate Isole Salomone. Qualche altro giorno di navigazione, come Sarmiento voleva, e avrebbero scoperto l’Australia, cambiando la storia del mondo. Invece, Mendaña volle rientrare in Perù. Sarmiento chiese al Viceré, forse per la seconda o terza volta, delle navi per recarsi allo Stretto di Magellano. Drake flagellava gli spagnoli, i quali decisero fosse bene verificare se avesse lasciato delle guarnigioni nello Stretto.
Sarmiento partì nel 1579 con due navi: non c’erano truppe inglesi o corsare tra Patagonia e Terra del Fuoco. Ma lui, oltre a prender nota delle coste e delle stelle, pensò fosse bene stabilire laggiù delle colonie armate e siccome per fare questo aveva bisogno di autorizzazione imperiale, decise di dirigersi direttamente in Spagna, dove giunse l’anno successivo, dopo essersi scontrato con un corsaro francese e averlo battuto. Filippo II lo accolse con favore e nel 1581 concesse una flotta di ventitre navi al comando di Diego Flores de Valdés, per l’occupazione dello Stretto e per la fondazione lungo le sue coste di una o più colonie. Sarmiento era a bordo, nominato futuro governatore di quei luoghi.
Vi risparmio una serie di particolari avventurosi: le tempeste, gli ammutinamenti, i rientri in Spagna. Sarmiento restò solo con due navi e fondò due colonie. Mentre tentava di raggiungere la seconda dalla prima, una tempesta furibonda costrinse la sua nave, la Maria, verso l’imboccatura orientale dello Stretto, spingendola quindi nell’Atlantico per venti giorni sino a gettarla, ormai distrutta, sulla costa del Brasile.
Tenace e incrollabile, Sarmiento volle ritornare in patria per chiedere aiuto a Filippo. Fu invece catturato da corsari inglesi nel bel mezzo dell’Oceano e condotto a Londra, dove fu richiuso nella Torre. Gli inglesi non erano sciocchi: sapevano chi fosse quell’uomo. Sir Walter Raleigh in persona andò a trovarlo e organizzò un incontro con la Regina. Sarmiento ed Elisabetta conversarono amabilmente in latino. È possibile che lei gli abbia affidato un messaggio per Filippo o gli abbia chiesto di fungere da intermediario, per evitare l’attacco spagnolo, che doveva concretizzarsi invece poco dopo con l’Invincibile Armata. Fatto si è che Sarmiento fu liberato e avviato verso la Spagna. Ma una banda di Ugonotti francesi lo catturò e lo tenne prigioniero per tre anni, mentre si svolgevano intensi e lunghi negoziati per il suo riscatto. Liberato infine per 6800 ducati e quattro cavalli, Sarmiento raggiunse infine la penisola iberica e si recò a Lisbona, dove Filippo si trovava. Ormai, si era nel 1589, e l’Invincibile Armata si era dissolta nel mare. Quando Sarmiento chiese a Filippo navi e uomini per soccorrere le sue colonie nello Stretto (nel frattempo il corsaro Cavendish aveva trovato un solo superstite spagnolo nel «Porto della fame» di laggiù), il re nicchiò. Conservò a Sarmiento il suo grado e gli diede un posto nella flotta imperiale. Il navigatore si diede a comporre la Relación y derrotero al estrecho de Magallanes, sulla sua prima spedizione allo Stretto. È una fonte indispensabile per chiunque voglia conoscere la geografia, l’astronomia, la flora e la fauna di quei luoghi nel Cinquecento. Sarmiento, però, non si era arreso. Salì sull’ennesima nave, al comando di un’altra flotta diretta alle Indie. Al largo di Lisbona, fu colto da un malore e cadde sulla tolda: morto.
Non so cosa manchi a questa storia per farne un romanzo pari o migliore di quelli di Jules Verne o Karl May. Manca il romanziere, naturalmente. Ma forse io potrei raccontarla per esteso, da storico o insomma da studioso se non da narratore. Mi sono procurato intanto tutti gli scritti di Sarmiento, compresi quelli pubblicati in Argentina diversi decenni fa. Ho percorso due volte le coste dello Stretto di Magellano e due volte l’ho attraversato, sempre con un mare liscio come l’olio. Ho contemplato le costellazioni australi, visitato il lago Sarmiento, nella Patagonia cilena, tra Puerto Natales e le Torres del Paine, in mezzo ai ghiacci dell’inverno meridionale. «Lo stupore è uno stordimento d’animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle». Stupefatto, devo soltanto compiere altre ricerche, leggere ancora un po’, quindi mettermi a comporre la storia di uno che amava i classici greci e latini e le stelle e la navigazione.