Italy
2009 Balzan Prize for the History of Science
La scienza e la sua storia – Milan, 06.09.2010 Lectio Magistralis (Italian – Video and Text)
Lectio Magistralis on the occasion of the Balzan Prizewinners 2010 Announcement
32′ 17″
La scienza e la sua storia
Ringrazio Salvatore Veca, che conosco da quando era appena laureato, nonché tutti i membri del Comitato che mi hanno fatto il grandissimo onore di conferirmi l’anno scorso il Premio Balzan e che mi hanno ancora onorato chiedendomi, in una occasione così importante, di tenere questa lezione.
Ho scelto un titolo generico, che cerca di dare un’idea di cosa si può pensare (non di cosa necessariamente si pensa) intorno alla scienza e alla sua storia. Il mio testo naturalmente risente del lavoro che ho fatto nel corso della mia vita e risente anche dei problemi che considero, ancora oggi, problemi aperti. La scienza e la sua storia, ovvero la scienza e il suo passato. Proviamo a dare al mio titolo la forma di una interrogazione: La scienza ha un passato? Ha un passato per chi? La scienza ha un passato anche per gli scienziati?
Ma è vero o non è vero che si può arrivare ad un Nobel per la fisica o la biologia senza aver mai letto saggi o libri di fisica o biologia pubblicati più di quindici anni fa? Tutti gli scienziati ovviamente sanno che la loro scienza ha un passato e nutrono una spiccata venerazione per i padri fondatori della loro scienza. Alcuni anche li leggono, ma la diretta lettura di pagine di Galileo o Newton o di Darwin non è loro richiesta per essere qualificati o stimati in quanto scienziati. Chi ha letto quelle pagine è ovviamente più colto di chi non le ha lette. Ma leggere o non leggere direttamente Galileo o Newton o Darwin è un po’ come ascoltare o non ascoltare musica o frequentare o non frequentare mostre di pittura. Comunque, quando si racconta in un dipartimento di scienze che cosa c’era in quel baule che venne aperto e reso pubblico duecento anni dopo la morte di Newton e che consentì a Lord Kelsen di scrivere un saggio intitolato Isaac Newton. the last of magicians la grande maggioranza degli studenti di fisica esprime uno stupore che sfiora l’incredulità.
La storia della scienza è piena di asserzioni che riguardano oggetti che sono scomparsi dai manuali di fisica e di biologia e che sono di conseguenza scomparsi anche da ciò che consideriamo “mondo reale”. Se invece di praticare una scienza, ci interessiamo alla sua storia, incontriamo spesso teorie che hanno avuto successo e che avevano al loro centro “oggetti” designati da termini che vengono oggi considerati privi di un referente. Nomi che furono intesi come designatori rigidi perdono (in qualche caso abbastanza all’ improvviso) la loro capacità referenziale. La storia della scienza non è soltanto piena di teorie che sono state abbandonate. E’ anche piena di entità che furono ritenute reali e si sono poi rivelate inesistenti. Le potenze angeliche che muovono le sfere, le anime motrici dei pianeti o del Sole (a quest’ ultima crede anche Keplero), la sfera delle stelle fisse (che è, come afferma Keplero, la “pelle” o la “camicia” dell’ universo); il flogisto e il calorico (di quest’ ultimo parla ancora Sadi Carnot nel 1824); il “seme femminile” dell’ embriologia del Settecento; l’ etere luminifero (che per Thomas Young, nel 1804, passa attraverso tutti i corpi materiali con resistenza minima o nulla, “così come il vento attraverso una foresta”) sono soltanto alcuni di questi oggetti.
Se dagli oggetti si passa alle teorie (per esempio : ogni corpo ha bisogno di una forza per rimanere in moto; la Luna non ha nulla a che fare con le maree; i fossili sono una duplicazione di forme già esistenti in natura; i continenti e gli Oceani sono entità stabili; l’ esistenza di una correlazione fra la forma del cranio e le capacità mentali di una persona; la fissità delle specie; la teoria dell’ atomo vortice o vortice molecolare di Lord Kelvin; la teoria della presenza-assenza nella genetica classica; la tesi – accettata fino agli anni Cinquanta del Novecento – che spetti un’ assoluta dominanza all’ emisfero sinistro del cervello; l’ identificazione dei raggi cosmici con i raggi gamma; l’ assunzione della “simmetria di parità” (considerata valida fino al 1956), le eliminazioni appaiono altrettanto frequenti e significative.
Nel caso dei nomi di oggetti, ha scritto una volta Enrico Bellone, il referente “scompare dal mondo fisico e il nome, cessando di essere un designatore rigido, conserva un significato nelle biblioteche”. Per quanto riguarda le teorie “abbandonate” le cose sono certo più complicate, ma, anche in quest’ ultimo caso, il riferimento alle biblioteche è importante. Perché una cosa sembra indubitabile: salvo eccezioni rarissime, quelle teorie, un tempo ritenute vere, considerate confermate dall’ esperienza, spesso accanitamente difese contro coloro che intendevano negarle o metterle in discussione, non interessano più gli scienziati. Conservano un qualche interesse solo ed esclusivamente per gli storici.
Questi ultimi (anche quelli della scienza) fanno oggetto di attenzione non solo le “scoperte” che si sono fruttuosamente inserite nella crescita del sapere, non solo le teorie “invecchiate” che sono tuttavia ancora alla base della nostra attuale conoscenza del mondo. Si interessano, talora si appassionano, a quegli oggetti, esperimenti, teorie che sono stati deliberatamente esclusi dal discorso scientifico, che , non per caso, sono caduti nella dimenticanza. Alcuni degli oggetti di cui gli storici si occupano sono soltanto invecchiati col tempo, altri vengono diversamente designati, altri sono stati inseriti in differenti teorie che ne hanno mutato la funzione e il significato. Molti altri, invece, sono stati ragionevolmente e concordemente accantonati e gettati via : sono stati unanimemente relegati fuori del sapere e, per così dire, consegnati alla dimenticanza .
Gli antiquari, come si sa, rovistano abitualmente nelle cantine e nelle soffitte. Più raramente (anche se talora accade) trovano cosa interessanti nella spazzatura. Gli storici rovistano in ciascuno di questi luoghi. Nonostante che gli storici della scienza siano particolarmente asfissiati dalla invadenza degli epistemologi (che spiegano loro in continuazione che cosa è e cosa deve essere la storia della scienza) essi concordano tuttavia quasi tutti con tutti gli altri storici di professione : considerano con grande attenzione non solo la storia dei vincitori, ma anche quella dei vinti. Traggono anche una qualche soddisfazione nel constatare che, nella particolare storia di cui si occupano, la sconfitta dei vinti è avvenuta (a differenza di quanto solitamente avviene nelle molto sanguinolente “storie” scritte dai loro colleghi) quasi sempre in modo incruento. Gli scienziati impegnati nella ricerca non hanno molto interesse per gli strani modi in cui furono inizialmente formulati i problemi sui quali lavorano. Nella stragrande maggioranza dei casi non discutono sui modi di formazione della loro specialità. Molto più semplicemente, muovono da essa e la assumono come il loro punto di partenza. Diventano membri di una corporazione adottando uno specifico linguaggio e accettando determinate regole. La cosa davvero importante è l’ apprendimento di quelle regole e di quel linguaggio.
Non dobbiamo dimenticare come si diventa uno “scienziato”. Quale studente potrebbe mai pensare di laurearsi in filosofia senza aver mai letto un dialogo di Platone o un’ opera di Descartes o di Kant ? Si potrebbe pensare ad un curriculum per laureandi in lettere che escludesse la lettura diretta di Dante o Ariosto o Goethe o Shakespeare ? Perché, al contrario, ci sembra del tutto ovvio e naturale che un laureato in fisica o in biologia possa, continuando ad essere qualificato bravissimo, non aver mai letto direttamente i Principia di Newton o L’ origine delle specie di Darwin o le memorie di Einstein ? Ancora : perché ci sembra del tutto ovvio e naturale che uno studente di fisica o di biologia – prima di cominciare a svolgere una sua autonoma ricerca (che è sempre inserita in un progetto più ampio o “collettivo”) – legga soltanto pagine che sono state scritte soltanto per essere lette da studenti di fisica o genetica o fisiologia ? I giovani studenti si avvicinano a forme di sapere fortemente strutturate. Ogni introduzione a quelle forme di sapere reca inevitabilmente con sé un elemento dogmatico. Proprio in riferimento ai manuali Thomas Kuhn ha parlato non a torto di un’ educazione “rigida e limitata, forse più rigida e limitata di ogni altro tipo di educazione, fatta eccezione per la teologia ortodossa”. I manuali non parlano molto dei problemi da risolvere o sui quali è in corso la discussione sulle riviste scientifiche. Parlano in prevalenza di problemi che sono già stati risolti e che si configurano come tipici o paradigmatici. Presentano cioè agli studenti come da risolvere problemi che già sono stati risolti e insegnano a risolverli non in modi nuovi e inaspettati, ma così come già sono stati risolti. Per questa ragione recano spesso in appendice le soluzioni giuste dei problemi e le risposte giuste alle domande.
Non vorrei procurare eccessivi brividi di piacere fra gli umanisti o fra gli assertori di una presunta superiorità delle lettere sulle scienze. Perché non dobbiamo dimenticare che quella forma di educazione”dogmatica” genera un tipo di sapere che è capace di trasformazioni rapidissime, che rimette in discussione i propri presupposti con una frequenza che è sconosciuta alla maggioranza degli intellettuali. I manuali scientifici invecchiano molto rapidamente, tanto più rapidamente quanto più una determinata scienza cresce. Chi riscrive un manuale (e gli autori di manuali scientifici lo fanno con una frequenza davvero molto alta) effettua cancellazioni e sostituisce frasi e affermazioni che appaiono “superate” con altre frasi e affermazioni ritenute più “vere”. Sa benissimo, facendo questo, che non mancheranno in futuro nuove cancellazioni e sostituzioni di frasi. Se ha davvero a cuore i destini della scienza che coltiva si augura anche che le affermazioni da sostituire nelle future edizioni siano molte. La disposizione a rivedere quello che si è affermato e a sostituirlo con altro non ha nulla a che fare, in questo caso, con le buone maniere. Ha a che fare con l’essenza stessa di un sapere che ha istituzionalizzato le rivoluzioni, che le ammette come fenomeni positivi e auspicabili, che attribuisce consistenti premi in denaro e importanti riconoscimenti sociali a coloro che sono riusciti a condurre al successo le idee più estremiste e che si configuravano, all’ inizio, come del tutto eterodosse e non accettabili .
Su questo indissolubile intreccio di tradizionalismo e di spirito critico, di adesione a criteri saldamente stabiliti e di “scetticismo generalizzato”, molti hanno insistito. Michael Polanyi scriveva (nel 1926) che i criteri della “plausibilità” e del “valore scientifico” tendono a rafforzare il conformismo, mentre il criterio – altrettanto forte – dell “originalità” tende invece a incoraggiare il dissenso. Gli standard professionali, concludeva, “impongono un contesto di disciplina e al tempo stesso incoraggiano la ribellione verso di esso”. Per essere presa sul serio una ricerca deve essere in accordo con una serie diffusa di convinzioni intorno alla natura e ai nostri modi per conoscerla. L’ autorità degli standard è così esercitata “allo scopo di fornire a coloro che da essi sono guidati delle basi indipendenti per opporsi ad essa” . Lo stesso identico concetto è stato espresso, più tardi, in modo molto più brillante : “Lo scienziato è un tradizionalista a cui piace giocare giochi difficili con regole ben stabilite, al fine di essere un innovatore capace di scoprire nuove regole e nuovi pezzi con cui giocare” .
Anche un’altra cosa non va dimenticata. L’ uomo anatomicamente moderno giunse in Europa circa 43.000 anni fa. Ciò che chiamiamo arte o letteratura sono entità che si perdono nella notte dei tempi. Dall’ età di Galilei ad oggi sono passati poco più di 300 anni. In questo breve intervallo quella complicata entità alla quale attribuiamo il nome di scienza ha assunto dimensioni planetarie. A Roma, a Tokyo, a Boston, a Sidney, a Città del Capo si studia la stessa fisica e la stessa genetica. I manuali sono, alla lettera, intercambiabili. Di ciò che sembra ovvio tendiamo – del tutto a torto – a non meravigliarci. Ma credo che si farebbe bene a tener conto del fatto che la scienza e la tecnologia sono riusciti in poco più di tre secoli, in quella impresa di una unificazione del mondo che è stata sognata da innumerevoli menti e che non era riuscita, nell’ intero, lungo corso della storia umana, a nessuna delle grandi religioni, a nessuna filosofie, a nessuna forma di arte. a nessuna delle grandi ideologie politiche.I manuali delle singole scienze (per riprendere un’ espressione di Thomas Kuhn) comprendono più o meno tutto ciò che gli scienziati ritengono di sapere e le principali applicazioni di tale sapere. Quegli avanzamenti e quei progressi che costringono a riscrivere (in tempi più o meno rapidi) i manuali sono affidati ai contributi che appaiono nelle riviste specializzate. Le informazioni sul come quel sapere fu acquisito in tempi più o meno remoti, sul perché certe teorie furono accettate come vere a preferenza di altre si configura come un sovrappiù: qualcosa che non c’ è nulla di male a sapere, che è magari lodevole sapere, ma che non è in alcun modo indispensabile sapere. Tutte le cosiddette vicende storiche che riguardano le relazioni fra le teorie e gli ambienti nelle quali esse furono esposte, sottoposte ad esame, combattute, difese vengono in tutti i manuali scientifici o del tutto ignorate o relegate in nota.
Lo storico della scienza assume come suo oggetto privilegiato un campo del sapere nel quale la dimensione della dimenticanza non è marginale, ma costitutiva ed essenziale. La “dimenticanza” – è opportuno aggiungerlo – non riguarda solo le teorie superate, o gli oggetti cancellati : riguarda anche la genesi delle singole scienze speciali, i modi in cui ciascuna di esse (in tempi diversi e in ambienti culturali differenti) ha costruito il suo specifico “oggetto”, ha delimitato il suo campo, ha tracciato linee di demarcazione, è diventata (dato che in origine non lo era) qualcosa di simile ad un organismo, a un corpus coerente e compatto di definizioni, teorie, esperimenti .
Quando ha richiamato con forza l’ attenzione sugli aspetti istituzionali della scienza, sul fatto che la scienza (come il linguaggio) è intrinsecamente la proprietà di un gruppo, Thomas Kuhn ha anche riconosciuto la presenza, nei manuali scientifici, della dimensione della dimenticanza. L’arrivo di Picasso non spinge nei sotterranei i quadri di Caravaggio. Ma le riviste scientifiche vanno nei magazzini ogni cinque anni. I manuali non solo nascondono il ruolo, ma l’ esistenza stessa delle passate rivoluzioni che hanno contribuito a generarli. Contengono in genere, nelle introduzioni, notizie frammentarie sulla “tradizione” della specifica scienza che espongono. In quelle introduzioni si fa riferimento solo alle “anticipazioni” e ai “precorrimenti” delle verità che verranno in seguito esposte. Nella storia della scienza, si domandava molti anni fa Giulio Preti, non si finisce per fare storia proprio di ciò che non è scienza ? Come può darsi storia della ‘verità’ ? Se ci mettiamo dal punto di vista ‘storico’ non va perduta proprio la ‘scientificità’ dei fatti di cui facciamo storia ? Era un modo diverso di affrontare lo stesso problema che più tardi ha affrontato Kuhn : “In parte per selezione e in parte per distorsione, gli scienziati delle età precedenti sono implicitamente presentati come se la loro attività si fosse svolta attorno allo stesso insieme di problemi fissi ed in accordo con lo stesso insieme di canoni permanenti che la più recente rivoluzione nella teoria e nel metodo ha dichiarato scientifici” .
Gli scienziati tendono a collocare la loro attività sotto il segno di una concezione lineare del progresso. Riscrivono continuamente i loro manuali, ma riscrivono continuamente una storia all’ indietro. Perché collocare gli errori fra le cose degne di essere ricordate ? Perché dare valore a ciò che solo la pazienza, la tenacia e la genialità di innumerevoli ricercatori ha consentito di abbandonare ? Nella ideologia della professione scientifica – questa la conclusione di Kuhn – è profondamente radicata una svalutazione della storia.
Come è del tutto ovvio, gli scienziati non hanno un grande interesse per le teorie o per le posizioni “superate”. Cadono quasi sempre dalla nuvole quando si spiega loro che nella fisica aristotelica il termine movimento comprende sia i moti dei corpi nello spazio sia i processi della generazione e della corruzione, che Copernico credeva nell’ esistenza di sfere solide sulle quali erano incastonati i pianeti, che per Keplero l’ universo era finito, che per Galilei le comete erano solo “vapori” dell’ alta atmosfera, che per Newton le comete servivano a “ridare la carica” alla macchina del mondo. Le teorie e le posizioni superate appaiono loro sempre o come veri e propri errori o come verità parziali o come gradini dai quali bisognava passare per giungere alla verità.
Esiste un modo di concepire la storia della scienza che sembra fatto apposta per far scomparire dalla scienza ogni elemento creativo. Se la storia della scienza racconta soltanto (o racconta quasi esclusivamente) del trionfo della ragione sulle superstizioni, sulle credenze strane, sull’umana stupidità, se da una parte c’è l’evidenza della luminosa verità e dall’altra solo l’ostinazione di pochi fanatici, se da una parte c’è il coraggio e dall’altra solo la viltà accompagnata da improntitudine, perché mai qualifichiamo eroi del pensiero o anche solo grandi Galileo e Keplero, Harvey e Pasteur?
Gli antiquari rovistano abitualmente nelle cantine e nelle soffitte. Più raramente (anche se talora può accadere) trovano cosa interessanti nella spazzatura. Gli storici rovistano in ciascuno di questi luoghi. Come spesso succede, la storia (anche la piccola storia di ciascuno di noi) è piena di imprevisti. Ho avuto la fortuna di incontrare una volta Walter Pagel, che è, a parere di molti, il maggior studioso di storia della medicina del secolo scorso. Fui colpito dall’acutezza dei giudizi di quel grande studioso che era fuggito dalla Germania nel 1933, l’anno che, da allora, lui continuò a chiamare, fino all’anno della morte, pestjhare, ovvero l’anno della peste. E’ l’autore dei grandi studi su Paracelso, sulla medicina filosofica nell’età del Rinascimento, dello splendido libro su William Harvey (1966) che feci pubblicare in italiano presso Feltrinelli nella collana di storia della scienza che dirigevo per quell’editore. Nel corso degli anni Sessanta incontrai anche un suo articolo pubblicato nel 1945 nel “Middlesex Hospital Journal” che aveva uno strano titolo The vindication of rubbish che si può appropriatamente tradurre in italiano come Una difesa della spazzatura.
Quel titolo voleva dire una cosa semplice che è stata troppo spesso dimenticata: se vogliamo fare storia dobbiamo occuparci non di come pensiamo noi, ma soprattutto di come pensavano loro. Spesso, loro, consideravano evidenti cose che per noi non lo sono affatto. Per capirli, dobbiamo anche rovistare entro discorsi che apparirebbero oggi superati o addirittura insensati. Dobbiamo interessarci a cose che sono state dimenticate e che i nostri antenati e predecessori hanno tentato di far scomparire dal mondo. Non dovremmo dimenticare mai che le distinzioni fra le discipline costituite non sono sempre passate nei luoghi stessi in cui passano oggi; che le verità che troviamo presentate come delle ovvietà nei manuali delle varie scienze sono sempre dei risultati; che quei risultati hanno alle spalle processi lunghi e complicati e che dietro ciascuno di quei risultati sono presenti lotte, contrasti, difficoltà, tentativi di individuare situazioni di crisi e di uscire da esse.
Per non scrivere storie trionfalistiche (che appaiono sempre più ridicole) gli storici (anche quelli della scienza), debbono far oggetto di attenzione non solo le scoperte che si sono fruttuosamente inserite nella crescita del sapere, non solo le teorie che sono ancora alla base della nostra attuale conoscenza del mondo. E’ bene si interessino seriamente anche a quegli oggetti, esperimenti, teorie che sono stati deliberatamente esclusi dal discorso scientifico, che sono stati ragionevolmente e concordemente accantonati e gettati via: unanimemente relegati fuori del sapere e, per così dire, consegnati alla dimenticanza.
Molti autori concepiscono e praticano la storia della scienza nel modo seguente: partono da un’ idea correntemente accettata, da un’ idea familiare; vanno all’ indietro verso la sua fonte, minimizzano ogni tipo di opposizione ad essa, ci presentano una coerente storia del suo trionfo. Un approccio di questo tipo, ai miei occhi, è adatto ad una lucida esposizione, ma è essenzialmente una forma di fiction o di romanzo. Riesce inoltre a far scomparire dalla storia ogni e qualsiasi forma di creatività. Per questa ragione non ho mai accettato la prospettiva di una storia della scienza di tipo “continuista” ed ho sempre rifiutato l’idea di un “cammino trionfale” della scienza nonché la consunta, improponibile e oggi un po’ ridicola immagine della scienza come ragione incarnata. Quando si riflette o si scrive sul passato, la cosa in assoluto più facile (che risponde alla tentazione più ovvia) consiste nel proiettare all’indietro, in un passato che è indifferente sia vicino oppure remoto, i modi di pensare, i sentimenti, le categorie, le convinzioni di oggi. Oggi (in ognuno dei nostri molti oggi) sappiamo o crediamo di sapere con assoluta chiarezza dove fossero i torti e dove le ragioni, dove passasse il confine tra le convinzioni accettabili e le credenze settarie e superstiziose, fra il libero aperto pensiero e il fanatismo intollerante e settario. Sappiamo come le cose sono andate a finire e quale è stato il destino dei personaggi principali del dramma nel quale abbiamo recitato la nostra piccola parte. Proiettiamo all’indietro il nostro sapere e le nostre scelte attuali e siamo portati a pensare – di noi stessi e degli altri – che questa chiarezza e queste stesse distinzioni fossero anche allora qualcosa di ovvio, fossero cioè presenti e operanti con la stessa forza e lo stesso vigore con cui (accanto a noi e dentro di noi) operano oggi. Si fa fatica, si fa davvero un’enorme fatica a pensare che allora fossero presenti le stesse incertezze e le stesse indecisioni che caratterizzano i nostri atteggiamenti di oggi, che caratterizzano il nostro attuale non saper bene chi siamo o dove siamo e dove vogliamo andare: se sia meglio per esempio passare da una strada (reale o metaforica) oppure da un’altra, dare per esempio fiducia ad un leader o ad un gruppo dirigente oppure ad un altro leader o gruppo dirigente.
Tutti gli storici (fatta eccezione per un consistente numero di storici della filosofia) sanno che scrivere di storia significa principalmente una cosa: «cercare di ricostruire, nella misura del possibile, (come ha scritto Adriano Prosperi) un passato come un presente, il suo carico di attese e di proiezioni, cancellando dalla nostra prospettiva la consapevolezza di quel che di fatto doveva succedere di lì a poco». Anche in Italia, tra i filosofi che si erano sottratti al modo gentiliano e crociano di discutere di questi problemi, era emerso questo tema del passato come un presente altro. Giulio Preti non ci ha lasciato nessuno di quei libri di storia della filosofia che scavalcano i decenni, ma era indubbiamente dotato di una non comune intelligenza filosofica e di una passione per la chiarezza che lo conducevano a cogliere, in espressioni dense, nodi centrali: «L’oggetto della scienza storica non è il nostro passato, ma un altro presente».
Si tratta di un oggetto che non è facile attingere. La storia della scienza non serve a rafforzare le epistemologie costruite dai filosofi, non deve servire a documentare cammini trionfali. Mi piace sottolineare questo punto perché in Italia circolano filosofi che (dimentichi dell’esistenza del libero mercato delle idee) si consolano della loro inesistenza al di fuori dei patri confini affermando che la debolezza della filosofia italiana dipende dal fatto che in Italia ci sarebbe, tra i filosofi, troppa ricerca storica. Dato l’ottimo livello raggiunta da quest’ultima, sarebbe un po’ come dire che se la Fiat andava male, la colpa era della Ferrari.