Discorso di ringraziamento – Berna, 09.11.2001
Francia
Marc Fumaroli
Premio Balzan 2001 per la storia e la critica letteraria dal XVI secolo ad oggi
Per le sue ricerche sulla retorica dal XVI al XVIII secolo con le quali ha profondamente rinnovato la nostra comprensione della cultura europea nei campi della letteratura, della pittura e dell'arte di vivere.
Signore, Signori
Non posso farvi capire quanto è grande la mia riconoscenza se non vi esprimo subito la mia sorpresa e la mia ammirazione.
Vengo infatti da un paese, la Francia, nel quale, se si eccettuano i microcosmi particolari e controcorrente dell’Institut de France, del College de France o dell’Ecole Pratiques des Hautes études, l’erudizione è considerata con un totale disprezzo. Un pregiudizio, ingenuo e astuto insieme, oppone ciò che il Settecento ha definito le belles-lettres a quell’erudizione che il Seicento considerava sinonimo di letteratura e che nel corso del secolo dei Lumi è diventata sinonimo di pedanteria ridicola e vana. Il XIX° secolo romantico aveva resistito a questa tendenza distruttiva. Debbo constatare che, negli ultimi decenni, quest’ultima è di nuovo considerevolmente aumentata in Francia e in Europa. Si è giunti ad atrofizzare, nella letteratura, la propria memoria e ad assimilarla, con leggerezza colpevole, alla stagione alla moda dei romanzi “à l’estomac” secondo l’espressione eufemistica di Julien Gracq.
Quanto a me, non mi illudo: se godo di una modesta fama nel mio paese ciò è dovuto ad un libello polemico, e non certo ai libri eruditi con cui mi sono guadagnato la stima duratura dei miei pari francesi e stranieri. Per tutto ciò, dunque, sono stupefatto ed estasiato che una Fondazione e una Giuria internazionale così prestigiose come quelle della Fondazione Balzan abbiano avuto l’ardimento di attribuirmi un premio così importante per la mia opera di erudito, cosa che farà riflettere tutti coloro che denigrano l’erudizione e la letteratura nel senso etimologico che a questa bella parola oggi disprezzata hanno dato Sainte-Beuve, Valéry Larbaud, Curtius e Auerbach. Ricevo dunque questa incredibile liberalità come un omaggio reso a tutta l’erudizione letteraria in lingua francese, e vi esprimo un ringraziamento tanto più sincero in quanto la vostra saggia generosità mi permetterà di essere a mia volta un mecenate per giovani eruditi e per ricerche che sino ad oggi dovevo limitarmi a ispirare.
Erudire, vuol dire uscire dall’ignoranza e dalla propria rozzezza; è un’esperienza e un’ascesi della memoria inseparabili della letteratura. Ogni poeta degno di questo nome è anche e soprattutto un erudito letterario. Dante è anche un esperto di poesia provenzale oltre che di poesia latina. Nella Divina Commedia accetta di essere guidato verso i sommi cieli prima da Virgilio e poi da San Bernardo di Chiaravalle. Al confronto, anche l’erudito più onesto è un poeta solo in potenza, un ausiliario della poesia. L’uno coniuga l’invenzione e la memoria, l’altro è un semplice magistrato della memoria. Tuttavia l’uno e l’altro, a livelli diversi, sono entrambi indispensabili alla costruzione letteraria. Il primo, il poeta, accende per così dire il fuoco dell’immaginazione e dell’emozione sotto la memoria della propria arte, l’altro, nel migliore dei casi, gli prepara e gli offre i materiali per alimentare questo fuoco. Hanno comunque in comune l’esperienza fondamentale della letteratura: riconoscere, qui e adesso, le rovine del passato e le lontananze dell’altrove, e scoprirne, con la meravigliosa possibilità che il linguaggio dà loro di comprenderle, la terribile impossibilità di ripristinarle e raggiungerle. La letteratura è una mnemotecnica malinconica, che conduce cioè lo spirito umano, preda del tempo e della separazione, a misurare i poteri e soprattutto i limiti della parola al cospetto dell’irreparabile.
Molto presto mi sono interessato alla retorica, fino ad essere considerato oggi un suo grande conoscitore, proprio perché ho creduto di discernere nell’antica disciplina, che sino al secolo scorso era sopravvissuta alla decadenza di numerosi imperi e di molte lingue, una profonda riflessione sulla memoria, i tempi, i luoghi, la diversità stessa degli uomini e sui mezzi che possiede la parola, in particolare la parola letteraria, per scongiurare il loro sbriciolamento. Per secoli si sono dette molte cose negative sulla retorica insegnata nelle scuole; si è arrivati addirittura alla fine del XIX° secolo a credere di poterne fare a meno. Recentemente però è successo che un nostro ministro dell’Istruzione ha dovuto rivolgere uno sguardo nostalgico verso l’educazione alla parola un tempo praticata nelle classi di poetica e di retorica: nel confronto con la scuola contemporanea esse sembrano rappresentare l’età dell’oro.
Ma il principale interesse che per lo storico presenta nelle scuole la retorica anche sommaria, utilitaria e normativa, risiede nella sua abilità a legare intimamente la forma orale e scritta del discorso con una visione dell’esistenza; quando questa visione maturava fuori dalla scuola, poteva andare controcorrente e opporsi alle idee e ai conformismi dominanti, tanto grande era la diversità e l’incompatibilità tra le varie esperienze storiche che la memoria letteraria trasmetteva parallelamente. Senza alcun dubbio, la retorica insegnata nelle scuole dell’Ancien Régime, aveva un’intenzione conservatrice, cosa che le è valsa la violenta ostilità dei progressisti ottocenteschi, ma vi era anche un’intenzione nascosta di mobilità sociale e di straniamento in senso prettamente poetico, che aveva certamente delle conseguenze politiche, filosofiche e religiose.
La scuola retorica continuava ad offrire come modelli di stile, in piena era cristiana, poeti antichi permeati di epicureismo e, sotto la monarchia assoluta, oratori dell’Atene democratica o della Roma repubblicana. Mentre la forma normale della parola in un ambiente monarchico, aristocratico e cattolico, era l’elogio, che effettivamente celebra e rassicura senza sussulti l’ordine gerarchico del mondo, la retorica insegnata nelle scuole non trascurava di introdurre alla argomentazione giuridica e alla discussione politica di cui Cicerone è stato in ogni tempo il modello, il teorico e potrei dire addirittura il martire: anzi, essa contrapponeva nei suoi esercizi l’ampiezza fastosa del periodare alla malinconia meditativa, ironica e paradossale dello stile ellittico. Seneca, Tacito e Giovenale, testimoni antichi dello spirito libero contro la tirannia imperiale, erano studiati e imitati dai giovani studenti che, d’altra parte, erano invitati ad imitare anche Plinio il Giovane per celebrare Luigi XIV e Luigi XV, dei quali erano i sudditi, come se questi Romani animati dalle libertà repubblicane fossero stati loro contemporanei.
Si è accusata a lungo la scuola retorica di far vivere i propri allievi in modo artificioso, in una lingua e in un mondo diversi da quelli in cui stavano per entrare. In realtà è stato proprio per questa ragione che essa, suo malgrado, ha allevato una folla di scrittori originali nei quali l’ironia nasce dalla loro capacità di vivere in tempi e in stili distinti da quelli che dettava loro il conformismo imperante; questa scuola ha preparato intere generazioni a liberarsi dai modelli sociali stabiliti dal mondo circostante e a sognare di essere cittadini e repubblicani in pieno regime monarchico assoluto. Quelli che venivano chiamati un tempo gli studi classici risiedevano in questa mnemotecnica letteraria che permette di raggiungere sin dall’adolescenza molti campi umanistici, molti modi di vivere e molti modi di raccontare il mondo, e che evita sempre il rinchiudersi in modelli sterili.
È su questo sfondo della diversità retorica, tenuta in poco conto sin qui dagli storici, che mi sono invece dedicato allo studio dell’apparizione e dello sviluppo, nell’Europa romanza del Rinascimento, di quella che è stata definita sin dall’inizio del Quattrocento la Repubblica delle Lettere. Questa strana creazione fittizia che è stata l’ambito protettore della collaborazione internazionale e interconfessionale tra eruditi, studiosi dell’antichità, poeti, artisti e anche scienziati di ogni disciplina, non avrebbe potuto produrre delle solidarietà così feconde e durature senza la scuola retorica nella quale tutti questi studiosi si erano formati. Essa ha loro insegnato che lo stile è anche un metodo di pensiero e che la ricerca della verità non può prescindere da un’eloquenza ben equilibrata che ne faccia valere, ed eventualmente trionfare, le conquiste. Galileo, sesto membro dell’Accademia dei Lincei, era circondato da letterati che si appassionavano al suo metodo e alle sue scoperte; egli sapeva che le sue preferenze letterarie erano in sintonia con il suo stile ironico di pensiero e propagava le sue scoperte come un grande retore, come un virtuoso del dialogo e della discussione polemica. Non era ancora stata inventata l’artificiosa contrapposizione tra le “due culture”.
Spero mi scuserete di avervi imposto, quale ringraziamento, una professione di fede dei principi che hanno guidato e continueranno a guidare più che mai la mia ricerca appassionata ed erudita sull’arte della persuasione antica e moderna, una diplomazia mentale che molte volte ha reso il mondo più civile e, quando è stata dimenticata, lo si è sempre crudelmente pagato. Si tratta di una ricerca spesso ignorata, disprezzata o combattuta. Ma voi l’avete invece legittimata pubblicamente con un’autorità e un risalto eccezionali. È per ciò che mi sono sentito autorizzato a parlare nel corso di questa cerimonia a nome di tutti coloro che in ogni parte del globo, prima di me, dopo di me e con me, si sono dedicati e si dedicheranno a servire la tradizione degli studi e delle arti liberali.Dal profondo del cuore, grazie.