Intervista a Michel Mayor 17.07.2008

Svizzera

Michel Mayor

Premio Balzan 2000 per la strumentazione e le tecniche in astronomia e astrofisica

Per i risultati raggiunti dal suo lavoro di ricerca che hanno permesso di scoprire il primo pianeta orbitante intorno ad una stella diversa dal Sole.

ALLA RICERCA DI PIANETI, E DI RISPOSTE
ALLE GRANDI QUESTIONI DELL’ASTRONOMIA 
Intervista a Michel Mayor
17 luglio 2008

Il 17 giugno scorso Michel Mayor, Premio Balzan 2000 per la strumentazione e le tecniche in astronomia e astrofisica, ha annunciato la scoperta di un sistema di tre “super terre”, nell’ambito della conferenza internazionale “Extra-solar Super-Earths” che si è tenuta a Nantes.
Utilizzando lo spettrografo HARPS dell’Osservatorio dell’ESO a La Silla in Cile, Michel Mayor e il suo gruppo di astronomi europei ha individuato tre pianeti di 4,2, 6,7 e 9,4 volte la massa della terra, che orbitano, con periodi di 4,4, 9,6 e 20,4 giorni rispettivamente, intorno a HD 4037, una stella leggermente meno grande del nostro sole, situata a 42 anni luce in direzione della costellazione australe del Pittore.
È un notevole passo avanti nell’osservazione dei pianeti extrasolari, dopo la scoperta fatta nel 1995 da Mayor e Didier Queloz di un pianeta orbitante intorno a 51 Pegasi, scoperta che ha dato inizio a questo nuovo importante ambito di ricerca.
Per questo abbiamo incontrato Michel Mayor all’Osservatorio dell’Università di Ginevra. 

Nel 1995 la scoperta del pianeta 51 Pegasi b è valsa a Michel Mayor il Premio Balzan. Con questa scoperta, la prima di un pianeta extrasolare, si è aperto un nuovo capitolo dell’astronomia. Nel 2008 i pianeti extrasolari che sono stati scoperti sono circa 300, tutti con osservazione indiretta.
I progressi in questo ambito di ricerca sono impressionanti dal punto di vista quantitativo, ma lo sono anche dal punto di vista qualitativo?

Cosa abbiamo appreso ultimamente? Penso prima di tutto alla scoperta di pianeti con una massa molto inferiore di quelli trovati in precedenza. Stiamo entrando ora in una fase di studio dei pianeti solidi rocciosi, con una massa di qualche volta maggiore della terra, o anche pianeti di ghiaccio. I primi dieci anni dalla scoperta dei pianeti extrasolari ci hanno permesso soprattutto di rilevare pianeti giganti gassosi come Giove e Saturno. Oggi la sensibilità dei nostri strumenti ci permette di trovare pianeti che si avvicinano alla massa della terra… e sono moltissimi. Il secondo passo molto importante è la scoperta di alcune decine di “transiti planetari”. Deboli diminuzioni periodiche della luminosità di certe stelle ci rivelano il passaggio di pianeti, davanti a queste.
Questi transiti planetari ci permettono di determinare il diametro dei pianeti, la loro densità media. Si può dunque cominciare a interessarsi della struttura interna degli esopianeti. I transiti infatti ci hanno fornito anche altro, come per esempio la misura della loro temperatura atmosferica. Evidentemente le orbite e le masse dei 300 esopianeti scoperti ci hanno rivelato l’impressionante diversità dei sistemi planetari, una diversità che ci aiuta a comprendere i meccanismi di formazione di questi sistemi… e del sistema solare in particolare.

Nel 2000 si era detto che un grande progresso in questo campo dell’astronomia era atteso dal passaggio dall’osservazione indiretta a quella diretta degli esopianeti. Si parlava del ruolo che poteva avere il telescopio europeo VLT. Sono stati fatti progressi nella visione diretta dei pianeti extrasolari?
Attualmente non ci sono fotografie di un oggetto che sia indiscutibilmente un esopianeta. Invece ci sono due o tre foto in immagine diretta di corpi celesti di massa molto piccola, scoperti con il VLT. Per esempio un oggetto con una massa nell’ordine di 5 volte quella di Giove… ma questo oggetto orbita attorno a una stella molto, molto piccola. Non penso che questo oggetto così leggero sia stato formato come un pianeta. Si vede dunque che la tecnologia fa dei progressi in questo campo e che non siamo tanto lontano da poter fare delle fotografie di esopianeti. L’ESO (European Southern Observatory) ha previsto nel suo piano di strumentazione di costruire un nuovo apparecchio per produrre immagini di pianeti, ma non sarà pronto prima di quattro anni. Questo strumento dovrà correggere i difetti dell’atmosfera terrestre per cercare di vedere piccoli oggetti, molto molto deboli che sono estremamente vicini a stelle brillanti. Questa è la difficoltà: siamo abbagliati dalle stelle! È evidente che simili sforzi sono fatti per ottenere la fotografia planetaria oltre lo spazio. Ancora un po’ di pazienza e avremo le prime immagini.

Ricevendo il Premio Balzan per la strumentazione e le tecniche in astronomia e astrofisica il 15 novembre 2000, Michel Mayor ha dichiarato: «La vita è presente da qualche parte nell’universo? Già alcuni astronomi cercano di dare una risposta. Può essere che il secolo che sta cominciando sarà quello che ci darà una risposta a questa vertiginosa domanda». Dal 2000 al 2008 è cambiata questa domanda? E qual è la speranza di oggi in questo campo?
Questa domanda resta e resterà sempre una delle più “grandi questioni” dell’astrofisica, ma anche di tutta la scienza. Non è di pertinenza esclusiva dell’astronomia perché riguarda altresì la biologia e la filosofia; “Esiste la vita da qualche altra parte nell’universo, oppure il nostro è un fenomeno unico?”. La questione è talmente essenziale che si costituiscono nel mondo numerosi istituti scientifici di astrobiologia.
Queste ricerche mirano a comprendere lo sviluppo della vita e a rilevarla fuori dal sistema solare. Questi istituti raggruppano scienziati dai diversi orizzonti: biologi, astronomi, geologi, chimici, ricercatori di formazione molto differente.

Per quanto riguarda i progetti specifici di ricerca della vita, sono stati fatti dei progressi?
Ci sono lavori preparatori molti importanti per missioni spaziali tese a rilevare la vita a distanza; non è questione di andare a cercarla in situ (eccetto qualche posto nel sistema solare, tra cui il pianeta Marte). Per cercare tracce di vita sui pianeti extrasolari bisognerà attenuare la luce emessa dalle stelle al fine di permettere l’analisi chimica dell’atmosfera planetaria per mezzo della spettroscopia; è molto, molto difficile. Molti scienziati, tanto nei laboratori quanto nell’industria spaziale, stanno sviluppando la tecnologia per queste missioni future. Intanto sia sul versante NASA che su quello ESA queste missioni restano ancora a livello di studio. Studi che sono ancora necessari prima di realizzare queste missioni. La questione della vita nell’universo resta sempre presente. Penso che in 15 – 20 anni verrà il giorno di queste missioni.

Qual è il ruolo dell’osservatorio di Ginevra in questo quadro di ricerca?
Noi non siamo biologi… dunque attualmente il nostro ruolo è di rilevare pianeti di massa comparabile a quella della Terra. Questa ricerca mira a caratterizzare le proprietà di questi pianeti rocciosi, la loro frequenza, le proprietà orbitali. Ci interessiamo alle stelle vicine che saranno gli obiettivi privilegiati di queste missioni spaziali. Ci piacerebbe, idealmente, recensire un certo numero di pianeti rocciosi nelle zone abitabili di questi sistemi planetari, vale a dire pianeti dove l’acqua possa essere allo stato liquido in superficie. Un lavoro di lungo respiro, preparatorio in vista di quelle missioni spaziali. Questa lista di stelle, da studiare poi con i grandi interferometri spaziali, è necessaria: infatti tali strumenti non possono dedicare tempo a cercare alla cieca i sistemi potenzialmente interessanti. Prima di realizzare missioni che costano miliardi di franchi, questi studi sono dei prerequisiti indispensabili… bisogna sapere un po’ dove si va a mettere piede! Gli astronomi sono forse gli ultimi – o tra gli ultimi – scienziati che hanno preso l’abitudine a fare delle previsioni, dicendo: “in … anni, noi saremo capaci di scoprire questo”.
 
Può essere dunque la tecnologia ciò che dà agli astronomi il coraggio di fare affermazioni sul futuro della disciplina?
Sì, ci sono alcuni aspetti da considerare. Da una parte si può estrapolare la nostra capacità di rilevare pianeti di massa sempre più piccola. Attualmente sono stati rilevati pianeti di massa 50 volte più piccola di quella di 51 Pegasi b. C’è stato un progresso continuo da 15 anni e non si vede la ragione per cui non possiamo migliorare ancora i nostri strumenti. Dunque queste previsioni sono basate semplicemente sul miglioramento della strumentazione. D’altra parte queste previsioni sono il risultato, altrettanto semplicemente, della valutazione del tempo necessario a realizzare esperimenti spaziali. Per la maggior parte dei satelliti scientifici è di dieci – venti anni dal momento della proposta all’arrivo dei risultati. Non sono dunque previsioni, ma valutazioni del tempo di realizzazione delle strumentazioni. A parte questo, sono certo che l’astronomia non è la sola ad essere in questa situazione. Ci sono molti campi, penso alla fisica delle particelle, ad essere nella stessa situazione. Quando si costruiscono macchine come il Large Hadron Collider lo si fa certo con la speranza di trovare una specifica particella.

Nella sua intervista a www.balzan.org, Alan J. Heeger, Premio Balzan per la scienza dei nuovi materiali non biologici e Premio Nobel per la chimica, ha dichiarato che lo scienziato, il ricercatore, deve sempre essere ottimista. Si era parlato di cambiamenti del clima, di tecnologia e dei pericoli che può portare all’ambiente: ma se c’è qualcuno che deve essere ottimista, questo è sempre l’uomo di scienza. È d’accordo con lui?
In generale sì. Nel campo specifico delle scienze ambientali il problema dell’ottimismo o del pessimismo è, ovviamente, più acuto, ma penso che socialmente bisogna guardare all’ottimismo. È il minimo indispensabile se si vuole avere una possibilità di convincere la società, i media di trovare una strada per uscire dai problemi attuali. Dunque capisco un po’ questa osservazione, nell’ottica di una sorta di dovere morale.


Marcello Foresti
per 
www.balzan.org

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