USA/Francia
Premio Balzan 1996 per la scienza politica: relazioni internazionali dei nostri giorni
Discorso di ringraziamento – Roma, 19.11.1996
Signor Presidente,
Membri della Fondazione Balzan,
Signore e Signori,
mia cara moglie Inge,
Il premio che avete avuto la generosità di conferirmi è, credo, il primo con cui si alluda esplicitamente alle relazioni internazionali in quanto ramo delle scienze politiche. Sono al tempo stesso felice di questo pubblico riconoscimento europeo dell’originalità dello studio delle relazioni internazionali rispetto alla storia della diplomazia e al diritto internazionale, e stupito di essere il prescelto, quando in questo campo si distinguono tanti altri politologi degni di questo nome.
Ho già avuto l’occasione di scrivere che non sono stato io a scegliere le relazioni internazionali, e che sono loro che mi hanno ghermito, stavo per dire di prepotenza, essendo io nato in Austria, avendo quasi subito dopo la mia nascita vissuto in Francia da straniero, avendo visto la famiglia di mia madre cacciata dall’Anschluss, e avendo in seguito passato – eccellente preparazione allo studio della politica comparata – gli anni dell’occupazione tedesca a Nizza, prima sotto Vichy, poi sotto l’assai benigno controllo italiano, infine sotto il terrore nazista. Il grande trauma della mia vita fu l’esperienza della capitolazione della Francia nel maggio-giugno del 1940, e l’esodo di giugno. Non c’è quindi da stupirsi che io abbia passato una parte della mia vita a tentare di dare un senso agli avvenimenti internazionali, e in particolare a cercare di capire che cosa accade quando la Storia calpesta gli uomini e le donne, o li strappa via dalle loro traiettorie private. Avendo vissuto durante l’occupazione (nazista del territorio francese, n.d.t.) al tempo stesso nella paura, per via delle circostanze, e nella speranza, grazie alla voce di Charles de Gaulle, non c’è da stupirsi che sia nei miei studi sulla Francia, sia nei miei lavori sulle relazioni internazionali, io abbia dedicato molti sforzi agli anni più cupi e a quell’uomo di Stato costantemente e deliberatamente straordinario. Stabilitomi negli Stati Uniti perché, diversamente dalla Francia, le relazioni internazionali vi erano riconosciute come una disciplina autonoma, non c’è nemmeno da stupirsi che io mi sia spesso orientato verso l’analisi dei rapporti franco-americani ed euro-americani. Ho passato quasi tutta la mia vita in quello che Rousseau definì “lo stato di guerra”, ossia l’anticipazione, o la preparazione, o lo svolgersi, o le conseguenze degli scontri fra nazioni – lo stato di guerra provocato da Hitler, poi la guerra fredda: non c’è quindi da stupirsi che io abbia attribuito un’importanza particolare alle idee, alle ideologie, alle percezioni (giuste o sbagliate) che ispirano e spiegano le decisioni dei Prìncipi e le passioni dei popoli, molto meglio di quanto non le illustrino i determinismi economici o tecnologici.
Nei miei lavori sono stato aiutato da maestri esemplari e generosi. Avete premiato uno di loro: Jean-Baptiste Duroselle. Un altro, che mi ha insegnato un approccio che ho seguito per tutta la vita, è Raymond Aron. Non dimentico Suzanne Bastid, mia direttrice di tesi, il cui rigore logico mi ha impressionato molto. Permettetemi inoltre di rivolgere un saluto a tre amici e modelli, il molto rimpianto Hedley Bull, Jacques Freymond, presso il quale ho avuto la gioia di insegnare, e un altro grande e geniale discepolo di Aron, Pierre Hassner.
Il mio approccio è quindi al tempo stesso storico, perché la storia è il solo oggetto possibile di quel tentativo di analisi sistematica che è la disciplina delle relazioni internazionali, nonché scettico proprio sulla possibilità di giungere a un sistema di spiegazione globale, a leggi paragonabili a quelle scientifiche. Il che significa che ho nuotato spesso contro corrente. Inoltre, figlio ingrato della scuola del realismo, per la quale il ruolo delle considerazioni etiche in politica estera è minimo, o ridotto alla scelta del male minore, ho invece finito per capire che è appunto in quello stato di natura, in cui si svolgono ancora i rapporti tra nazioni, che vengono messi in atto i dilemmi, i drammi, le scelte morali più gravi, e che era necessario stabilire il contatto tra le relazioni internazionali da un lato, e la filosofia politica e morale dall’altro. Da questo punto di vista, penso di nuotare nel senso della corrente, ancorché gli altri nuotatori siano più spesso filosofi che politologi.
Lo confesso, sono doppiamente preoccupato. Sono preoccupato per il futuro di un mondo in cui i molteplici e spesso sanguinosi fenomeni di frammentazione o di disintegrazione – così come la “globalizzazione” economica e tecnologica che ha del resto spesso contribuito alla frammentazione – esigerebbero, per essere attutiti o rallentati, l’esistenza di istituzioni internazionali forti: mentre le nazioni, sempre meno padrone di una sovranità che fa acqua da tutte le parti, rifiutano – anche in Europa – di dare a tali istituzioni i poteri necessari. Quanto alle organizzazioni e associazioni transnazionali private che tentano di unificare e migliorare il mondo, non sempre esse dispongono dei mezzi o dell’influenza necessari. Sono preoccupato anche per il futuro della mia disciplina, e talvolta tentato di ripiegare sull’altro mio campo di studi: la storia politica e intellettuale della Francia. L’attuale proliferazione di modelli formali noncuranti della storia e della filosofia, la scolastica, ovvero l’ossessione di una teorizzazione, spiegabile attraverso una forma di invidia dei politologi nei confronti degli economisti, la sottomissione o la riduzione della più aleatoria delle politiche – la politica estera – al dogma della “scelta razionale”: tutto questo mi sembra condurre la mia disciplina su una via senza sbocchi.
Ringrazio i signori giurati di aver voluto conferire un riconoscimento a un’opera di cui conosco troppo bene le debolezze, ma che ha ciò nonostante seguito l’unica direzione che mi appaia valida.