USA
Premio Balzan 2008 per la scienza del mutamento climatico
Sintesi panoramica – Roma, 21.11.2008 – Forum
Verso la metà degli anni Ottanta, due linee di ricerca da me seguite fin dai tempi della mia tesi di PhD si sono improvvisamente incrociate. Una riguardava la determinazione della velocità di “ossigenazione” dell’ambiente oceanico attraverso la formazione di acque profonde e l’altra riguardava la ricostruzione del clima terrestre degli ultimi centomila anni. Questa “collisione” è avvenuta quando mi sono reso conto che le grandi e improvvise variazioni di temperatura registrate nelle carote di ghiaccio della Groenlandia potevano essere spiegate da un fenomeno di attivazione e disattivazione della formazione delle acque profonde nella parte settentrionale dell’Oceano Atlantico. Una volta formate, queste acque profonde scorrevano per tutta la lunghezza dell’Oceano Atlantico, giravano attorno alla punta dell’Africa e confluivano nella grande corrente circumantartica. Da lì penetravano nelle profondità dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico per poi risalire infine in superficie. Completavano poi il circuito globale rifluendo nell’Oceano Atlantico. Stando così le cose, l’alterazione da me ipotizzata ha portato a una riorganizzazione del funzionamento dell’oceano e di conseguenza anche a grandi cambiamenti a livello atmosferico. E’ stata una sorta di “quantizzazione” del clima del nostro pianeta. Si disattiva la produzione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale e il clima passa di colpo da una modalità di funzionamento a un’altra.
Naturalmente, questa era un’idea rivoluzionaria e come accade per ogni nuovo paradigma, è occorso del tempo perché prendesse piede. Una volta accettata, molte informazioni a suo supporto sono arrivate anche dalla paleoclimatologia e dai modelli della climatologia. È emerso che sbalzi di temperatura equivalenti a quelli della Groenlandia erano presenti nelle registrazioni climatiche di tutto l’emisfero settentrionale e nella zona tropicale. Pur se ridotte nell’emisfero sud, le registrazioni delle carote di ghiaccio dell’Antartico mostravano una situazione di antifase rispetto a quelle dell’emisfero nord. Ciò ha portato al concetto di un’oscillazione bipolare del funzionamento dell’oceano. Le interruzioni della formazione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale erano apparentemente compensate da un’aumentata formazione di acque profonde nella parte sud.
Fin dall’inizio, una delle questioni chiave era la causa delle interruzioni nella formazione delle acque profonde. Pur se la risposta continua ad essere dibattuta, si è generalmente d’accordo sul fatto che lo scioglimento delle enormi masse di ghiaccio lanciate nell’Atlantico settentrionale dallo Stretto di Hudson formava una cappa di acqua dolce che, a causa delle condizioni di bassa temperatura dell’era glaciale, permetteva la formazione invernale di ghiacciai marini. In questo modo si impediva che la densità delle acque superficiali aumentasse tanto da permettere la formazione delle acque profonde.
È occorso parecchio tempo per capire come la riorganizzazione della circolazione oceanica possa aver influito in modo tanto pervasivo e profondo sul clima. La risposta è arrivata quando John Chiang, dell’università di Berkeley, ha mostrato che la presenza di una copertura più vasta dei ghiacci marini nell’Atlantico del nord poteva essere responsabile del fenomeno. Questo ghiaccio, non solo impediva la dispersione del calore nell’atmosfera ma rifletteva verso lo spazio la luce del sole. Avrebbero così avuto origine inverni di tipo Siberiano in Canada e nell’Europa settentrionale. Chiang ha mostrato che questo fenomeno avrebbe anche spinto verso sud l’equatore termico e la fascia umida ad esso associato spiegando così gli effetti registrati ai tropici.
Inizialmente ero preoccupato del fatto che il riscaldamento causato dalla CO2 prodotta dai combustibili fossili potesse portare a una ripetizione dell’arresto della distribuzione. Tuttavia non ci sono elementi a favore di un’improvvisa inondazione di acqua dolce. Inoltre numerosi studi di modelli hanno mostrato che il previsto aumento delle piogge e del deflusso fluviale darebbero luogo soltanto a un rallentamento e non a un improvviso arresto del fenomeno. In un mondo più caldo, poi, verrebbe a mancare il grande feedback climatico dato dall’espansione dei ghiacci marini.
Ad ogni modo, ora che è chiaro che l’andamento del sistema climatico della Terra può essere soggetto a improvvisi mutamenti, non possiamo scartare la possibilità di future sorprese. Ho pertanto tenuto occhi e orecchi bene aperti per immaginare i possibili scenari. In una conferenza di molti anni fa, Isaac Held, uno dei più autorevoli geofisici dell’atmosfera, proponeva la tesi convincente secondo la quale il riscaldamento globale avrebbe fatto aumentare le precipitazioni nella zona tropicale e, come conseguenza di ciò, le terre aride extra tropicali si sarebbero estese e sarebbero diventate ancora più aride. Questa è una cattiva notizia, in quanto più di un miliardo delle persone più povere nel mondo vivono in territori aridi e circa il 40 per cento della produzione mondiale di cereali è coltivata su terreni irrigati.
Avendo condotto nella mia carriera studi di dati relativi ai laghi nelle aree desertiche, mi sono reso conto che costituivano una buona possibilità di verifica dello scenario suggerito da Held. L’idea è che, posto che questi laghi non esondano mai, la loro dimensione varia in rapporto alla quantità delle precipitazioni che si verificano nel loro bacino idrografico. Poiché l’evaporazione della superficie del lago deve bilanciare l’immissione di origine fluviale, quanto maggiore è l’immissione, tanto più vasta sarà l’area occupata del lago.
Tuttavia, poiché durante gli ultimi centomila anni – più o meno – la temperatura della Terra non è stata significativamente maggiore di quella attuale, ho dovuto necessariamente concentrarmi sulle registrazioni delle ere glaciali. Il punto debole dello scenario proposto da Held sarebbe che durante i periodi più freddi, le terre aride avrebbero dovuto essere più piccole e meno aride. La datazione radiometrica del materiale dei litorali paleolitici dei laghi nelle terre aride degli Stati Uniti occidentali, del Medio Oriente e dell’Argentina, dimostrano che in corrispondenza dei picchi dell’ultima era glaciale (da 24 a 18 mila anni fa) i laghi erano da cinque a otto volte più grandi di quanto non lo siano ora! Inoltre, a quel tempo, i laghi dell’Africa tropicale orientale erano molto più piccoli di adesso. Incoraggiato da questo esame preliminare, sto ora lavorando, con un gruppo di scienziati che la pensano come me, alla dimostrazione del fatto che responsabili di questi cambiamenti sono state le basse temperature e non altri aspetti dell’era glaciale.
Nell’aprile 2002, ricevetti una lettera che diede nuova dimensione alle mie attività. Proveniva da Gary Comer, un uomo di cui non avevo mai sentito parlare e che mi chiedeva consiglio. Spiegava che durante l’estate precedente era riuscito a navigare con il suo Turmoil, uno yacht di 50 metri dallo scafo in alluminio, attraverso il Passaggio a Nord-Ovest, dalla Groenlandia al Mare di Bering, senza alcuna interferenza da parte dei ghiacci marini. Essendo stato il primo a poter realizzare questa impresa, si domandava se il riscaldamento globale stesse già influendo sulla zona Artica. Una settimana più tardi, Gary si presentò al campus Lamont-Doherty della Columbia University con numerose domande da porre. Suppongo che le mie risposte lo abbiano soddisfatto perché prese sotto la sua protezione sia me, sia un certo numero di miei amici impegnati nello studio dei cambiamenti climatici improvvisi. Non solo ci aiutò economicamente, ma mise a nostra disposizione mezzi di trasporto per raggiungere luoghi per noi altrimenti inaccessibili. Così facendo, creò una squadra di scienziati che, a due anni dalla sua scomparsa, continuano a lavorare in stretta collaborazione.
La missione di Gary Comer si è spinta oltre la sua partecipazione attiva alla nostra ricerca. Era molto preoccupato dai potenziali effetti negativi che il riscaldamento globale avrebbe creato e riteneva che la promozione di scoperte su quanto il sistema climatico terrestre sia sensibile a piccole sollecitazioni sarebbe servita da allerta sulle conseguenze che la grande sollecitazione del CO2 originato dai combustibili fossili sta per causare.
Ho in mente un esempio preciso. Klaus Lackner, un mio collega presso la Columbia University, è stato il primo a capire che gli stessi flussi di aria utilizzati per il funzionamento delle turbine si sarebbero potuti sfruttare con maggiore efficienza per eliminare l’anidride carbonica dall’atmosfera. Una volta elaborata chiaramente l’idea nella mia mente, mi sono reso conto che Klaus aveva trovato una soluzione che sarebbe stata non solo l’elemento chiave di qualsiasi strategia intesa a contenere l’aumento di CO2 nell’atmosfera ma che sarebbe diventata anche l’unico modo per ottenerne la diminuzione una volta stabilizzatone il valore. Per questo motivo ho convinto Gary Comer a investire nello sviluppo di un dispositivo in grado di catturare la CO2 in modo economico, nonostante le preoccupazioni dei suoi consulenti finanziari, che ritenevano il progetto troppo rischioso. Ora, dopo cinque anni, la piccola società General Research Technologies, alimentata dal genio di Lackner, è riuscita nell’intento e promette un prototipo che sarà disponibile sul mercato entro due anni.
In conclusione, ho tratto un grandissimo piacere dai miei 56 anni da scienziato e l’Osservatorio Terrestre Lamont-Doherty della Columbia University è stato, e continua a essere, il mio paradiso terrestre. Intendo impiegare il denaro del Premio Balzan per ulteriori ricerche che consentano di utilizzare i dati paleoclimatici come guida per il futuro.